TESTO
La prima volta che vidi Sam, capii che era nella fase maniacale: correva, saltava, gli occhi roteavano. Non era in sé, ma una cosa mi ricordava la persona che conoscevo: la sua passione per l'arte.
Quando parlava dei suoi lavori, aveva dei momenti di lucidità, ma aveva smesso di crederci; diceva che "Trento non lo poteva capire".
Dopo poco tempo scappò. Non sapevano dove fosse andato, ma un giorno mi chiamò: "Andi, sono a Bologna! È una figata qui... sto benissimo". Chiamai sua madre, l'informai e il giorno dopo era già ricoverato, con un TSO nel reparto di psichiatria di Trento.
Era a letto, inerme: lo avevano sedato così tanto che quasi non riusciva a camminare.
Fumava, fumava tantissimo. Capii subito che in un posto così, dove non hai nulla da fare, le giornate non passano e l'unico svago è la sigaretta.
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Le settimane successive furono un su e giù... Imparai a riconoscere quando stava per andare in mania: la voce cambiava, non parlava più di suicidio.
Un giorno mi confessò che, di proposito, smetteva di prendere la terapia per ritornare in quello stato d'animo che gli permetteva di creare. Le chiamava "performance": scappare, vivere per strada, non mangiare per giorni, conoscere gente nuova... questa, per lui, era arte.
Di nuovo cadde in depressione, venne ricoverato, gli cambiarono terapia: non più il Litio ma il Risperdal. Lo dimisero e ci riprovò. Una notte prese tutte le medicine che trovò in casa. I suoi, per l'ennesima volta, non le avevano tolte. Questo mi ha sempre fatto arrabbiare, ma non sono mai riuscito a dirglielo.
Non morì nemmeno questa volta, ma da lì non si riprese più. Le pastiglie lo trasformarono: pesava tantissimo, era spento.
Andai a trovarlo ancora qualche volta, ma le nostre strade si divisero. Fino a quando un giorno mi chiamò suo padre: "Sam non c'è più".